Per tutta la quarantena alle otto di sera ho applaudito alla finestra, era una cosa divertente. Tipo gli applausi degli italiani durante gli atterraggi. Mi sentivo comunità.
Poi l’11 maggio ho smesso e pensavo anche gli altri.
La vecchietta del quarto piano ha continuato a dettare il tempo con mestolo e padella fino a due giorni fa.
Il vecchio del sesto piano, vorrei avere la sua perseveranza, è ancora lì ad applaudire, da solo, stasera sotto alla pioggia. Vorrei avere la sua perseveranza e invece io mi rompo i coglioni.
Non sono fatto per tenere il fronte, lasciami in trincea e mi recuperi al bar. A me è un attimo che le cose belle diventino un marone colossale. Come certi amici, certe amanti, certi clienti.
E questi applausi solitari non so se siano più eroici, disperati o patetici. Ma sono comunque qualcosa. Fanno l’eco.
La mia quercia pensavo se la stesse mangiando una lumaca. Di quattro foglie che aveva, una mattina ne abbiamo trovate tre. Poi abbiamo capito, colta in flagrante, che la lumaca pesava sette chili, era pelosa e aveva la coda. Un cazzo da ridere.
Il gatto è sazio, la quercia sghemba ma viva.
Sto leggendo degli Hibakujumoku, che sono gli alberi sopravvissuti alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki e che oggi sono amatissimi, i vecchietti ci parlano e i giovani li abbracciano.
Il più incredibile, un salice piangente, è sopravvissuto a 350 metri dall’epicentro. Ha perso tutti i rami, le lacrime e il tronco ma si è ripreso dalle radici.
Io me lo immagino lì, solo, ultimo sotto la pioggia radioattiva. Ad applaudire.
A me invece, in un’esplosione nucleare, mi recuperi al bar. Con la quercia sotto braccio.